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“Un fiume di ricordi” di Roberta Baldantoni raccoglie consensi al nostro concorso di narrativa

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Ecco il racconto di Roberta Baldantoni dal titolo “Un fiume di ricordi” Quando ho sentito bussare alla porta, sono rimasta stupita. Erano mesi o forse anni che nessuno lo faceva, tanto meno mi sarei immaginata di trovare, una volta aperto, due occhietti neri, curiosi e pungenti.
Quando mi hai salutato con quel “Buongiorno” squillante, ho pure pensato che fossi la solita scocciatrice in cerca dell’ennesima anzianotta da raggirare, ma ancora ci sto bene con la testa e ho sempre il bastone con me, non si sa mai.
In realtà mi hai chiesto solo informazioni su un vecchio mulino della zona, un mulino di quelli ad acqua, come si vedono nelle illustrazioni delle migliori storie per bambini. In un attimo la mia testa è tornata a quella ruota, al suo rumore, allo scorrere del fiume, all’attrito delle macine di pietra ed alla faccia di mio marito mugnaio, sporca di bianco.
Quindi, facendo il punto, tu sei una giovane universitaria intenta a fare una ricerca sui “mestieri perduti” e io sono una sorta di piccola enciclopedia fatta di ricordi; forse, nonostante la mia età, potremmo pure arrivare a delle conclusioni interessanti, visto che ancora non sono proprio decrepita
e la mia testa, come dicevo prima, regge ancora.
Mi sarebbe piaciuto che tu parlassi con mio marito, lui era quello che poteva svelarti i segreti di un mestiere ormai scomparso, ma purtroppo non c’è più. In realtà forse non c’era più da tempo, da tanto, troppo tempo; potrei sostenere di essere rimasta vedova giovanissima e non direi poi nulla di così osceno.
Lo so che non mi capisci, lo vedo dai tuoi occhietti che diventano sempre più piccoli e pungenti, ma il punto è che ogni luogo ha una storia che si intreccia con quella di chi lo abita. La nostra storia è stata meravigliosa e tremenda allo stesso tempo. Non so se hai la pazienza di ascoltarmi, non vorrei fare la parte della vecchia brontolona nostalgica, sai di quelle che ripetono sempre le stesse cose, ma in realtà forse questa è la prima volta che mi sento di raccontare come è andata veramente.
Il mulino che tu cerchi, era proprio qui, in questa casa. Le macine ed il meccanismo erano al piano di sotto, e qua fuori c’era il canale con cui veniva deviata l’acqua del fiume, per far funzionare la ruota. Era immensa, tutta di legno e ha fatto il suo dovere per molti anni, sempre accudita da mio
marito.
Era il primo dopoguerra, ed io ero diventata la moglie del mugnaio ribelle, mio marito infatti era considerato un po’ strambo, perché nonostante le origini nobili, aveva deciso di lasciare tutto ed essere diseredato dalla famiglia, piuttosto che doversi assoggettare a quelle che per lui, erano delle regole assurde. Il padre lo considerava un reietto, la madre non ne parliamo, solo la sorella di tanto in tanto, di nascosto, lo veniva a trovare. Poco male, nessuno di loro era poi così simpatico, te lo posso garantire. Anche io comunque, avevo avuto qualche difficoltà a potermi sposare con lui.
I miei genitori erano contrari e i mie tre fratelli fecero il diavolo a quattro per potermi evitare un dolore, dicevano loro. Forse, col senno di poi, mi sento di dire che avevano ragione, ma è anche vero che forse non si può andare contro al proprio destino, mi ero incapricciata col mugnaio e sua moglie diventai.
Tornando al nostro mulino, posso dirti che qui la zona era molto diversa da come la vedi ora. Non c’era la strada asfaltata no, si poteva arrivare attraversando un ponticello in cui passava a pelo un carro tirato da due buoi. Poi ovviamente c’era chi arrivava coi sacchi caricati sull’asino o addirittura
tirando in due o tre un carrettino. Le famiglie all’epoca non avevano molte risorse, le uniche cose che c’erano in abbondanza erano la miseria e le bocche da sfamare.
Avevamo costruito un piccolo pergolato, per far ristorare la gente che arrivava e che sarebbe ripartita solo una volta finita la macinatura. Mio marito era abile e veloce anche se a volte i suoi modi lasciavano a desiderare.
Passava dalla scontrosità del mattino, all’affabilità e voglia di scherzare del pomeriggio e la gente che arrivava a volte se la prendeva un po’. Fortunatamente il mulino più vicino al nostro era parecchio lontano e nolenti o piacenti, i clienti non ci mancavano.
Ti chiederai se eravamo soli, considerando come erano numerose le famiglie all’epoca. Siamo stati soli e poi è arrivato un figlio, un maschio che ha fatto diventare mio marito luminoso e amorevole, penso che avrebbe dato la sua vita pur di farlo star bene. Erano sempre attaccati, se lo portava dappertutto e dal ponticello sopra il fiume, andavano a fare i tuffi nella gorga sottostante. Io avevo una paura, che se ci penso ancora oggi mi vengono i brividi, ma quei due erano come i cervi che ancora oggi pascolano qui dietro, erano liberi. Abbiamo sempre vissuto in questa sorta di paradiso, coi piedi piantati su una terra meravigliosa, piena di natura e così vicina alla felicità, attraversata da questo fiume, che non è poi così diverso oggi da allora. Sai ho sentito alla televisione che l’acqua è considerata divina, dà la vita dicevano, io non so se sia vero, ma sicuramente so che scorre e che non è mai uguale a se stessa. Scorre e non si può fermare, proprio come il tempo che è passato ed oggi mi vede qui con te, a raccontare qualcosa che non c’è più.
Dicevamo del mulino, scusami ma ogni tanto mi viene da prendere una via traversa nel discorso.
Ecco le macine erano di pietra ed erano scalpellate a mano. Ad ogni fine stagione mio marito le ripassava in modo che l’anno dopo potessero lavorare al meglio. Poi c’era il buratto che serviva a raffinare la farina e tanti altri arnesi che io non ti saprei nemmeno nominare. All’inizio io stavo al mulino, ma dopo la nascita del figliolo mi sono dedicata a lui. Quanto gli volevamo bene!
Parlo al passato sì, perché io adesso sono sola. Mio figlio aveva qualcosa di strano, ha iniziato verso i dieci anni ad avere dei problemi. La prima volta che capitò eravamo io e lui e non sapevo cosa fare. Iniziò a tremare, strabuzzando gli occhi cadde per terra e sembrava soffocare. Ho urlato, ho pianto, ero disperata. Mio marito arrivò di corsa, tutto bianco di farina e cercò di tenerlo fermo per non farlo sbattere o ferire, poi tutto passò.
Mettendo da parte l’orgoglio, il mio povero marito rispolverò tutte le sue vecchie conoscenze ed amicizie, per poter venire a capo di qualcosa, per capire l’origine del male del ragazzo. Un giorno un medico ci spiegò e io che non avevo capito niente, riuscii solo a comprendere che si trattava di qualcosa di male. Mio marito si prese la testa fra le mani alle parole del medico, poi usciti dalla
stanza, ci prese tutti e due per mano e ci riportò a casa. Nei giorni seguenti non faceva altro che raccomandarsi col ragazzino di non allontanarsi e di rimanere sempre nei paraggi dove lo potevamo vedere. Quel poveretto crebbe i successivi quattro anni immerso nei nostri angosciosi pensieri, senza sapere cosa gli stava succedendo. Era epilettico, soffriva di una forma grave, che nessun farmaco era stato in grado di tenere a freno.
Il ragazzo andava a scuola regolarmente, accompagnato a piedi da altri compagni, poi quando tornava, andava ad aiutare il padre al mulino. Era felice quando erano insieme, gli occhi brillavano ad entrambi. D’estate il padre non lo portava più a fare i tuffi dal ponticello, si era inventato che il livello dell’acqua era diminuito e si sarebbero potuti fare male, ma in realtà aveva solo paura. Anzi ti dirò che gli aveva proprio vietato di fare anche solo il bagno con gli amici e lui iniziò a pensare che tutti quei no e quelle imposizioni, fossero ingiusti castighi per qualcosa di male che non aveva fatto. Soffriva e diventava sempre più insofferente.
Un pomeriggio d’estate disse al padre che sarebbe andato da un vicino, in casa di un suo compagno di scuola, per aiutarlo a caricare i sacchi di grano da portare al mulino. Quando capimmo che era
una scusa, era ormai troppo tardi. Era annegato e mio marito lo ritrovò qualche centinaio di metri più a valle, trattenuto da un ramo di acacia. Aveva solo quattordici anni.
In un colpo solo io ho perso la vita, un figlio e mio marito, che reagì nel modo più assurdo che poté.
Iniziò ad essere veramente pazzo, mandava via i clienti imbracciando il fucile, stava giornate intere oziando steso per terra senza mangiare né bere, si buttava nel fiume anche nei mesi successivi, in pieno inverno e urlava e piangeva, io lo sentivo che anche di notte piangeva, senza darsi pace. Un giorno iniziò a prendere a martellate la ruota del mulino, ne spaccò una parte e da quel momento finì di sgretolarsi anche quel poco che era rimasto. Io non potevo fare altro che guardare ed aspettare, non potevo aiutarlo in alcun modo, perché prima dovevo capire come aiutare me stessa.
Scusami tesoro, forse ho esagerato, mi sono fatta prendere la mano dalla mia storia e ho perso di vista il mulino. Forse però avrai altri dieci minuti per ascoltare come è finita, perché non è ancora finita.
Il mulino era perso, il lavoro era finito, eravamo nell’indigenza più totale e un giorno mio marito, avvicinandosi mi abbracciò, e mi strinse forte per le spalle. Baciandomi sulla guancia mi chiese scusa per non esserci più stato, mi voleva ancora bene! Forse potevo sperare di ricominciare, potevamo dimenticare.
Un mese dopo scoprii di essere in cinta. Sarebbe stata una gioia ma poteva essere di nuovo l’inizio di un incubo. Non dissi niente a nessuno ed iniziai a fare i peggior lavori, sforzandomi di faticare più che potevo. Avrai capito cosa ti voglio dire, dove volevo arrivare e capirai anche, che ci sono riuscita.
Qualche settimana dopo, un pomeriggio di gennaio, a piedi nudi tra la neve, stavo lavando i panni al fiume, un dolore lancinante, tanto sangue che tinse l’acqua e poi non ricordo più niente. Mi sono risvegliata in casa, febbricitante, in sottofondo, dall’altra stanza, il brusio delle voci del medico e mio marito. Pensando di fare bene, avevo solo segnato irrimediabilmente le nostre vite. Quindi come vedi, il mulino di per sé, sarebbe stato qualcosa di inanimato e non avrebbe una gran storia se non fosse stato per le azioni di questa povera vecchia e di tutti gli altri, naturalmente.
Tutti siamo stati felici ed abbiamo sofferto in questa terra, vicino a questo fiume che ci ha insegnato che nulla è per sempre, che tutto se ne va e si trasforma, sia i momenti belli che quelli brutti.
La storia del vecchio mulino è tutta qui.

Roberta Baldantoni

Foto da Internet

“Oro blu” il racconto di Sara Bortoluz si mette in luce nel nostro concorso di narrativa

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Ecco il racconto di Sara Bortoluz dal titolo “Oro blu”

Adina si svegliò nel cuore della notte. Il buio regnava sovrano attorno a lei, avvolgendola nella sua massa densa ed oscura. Un dolore incessante e fastidioso le percorreva la schiena, snodandosi a tratti lungo le braccia scarne. Era esausta, eppure non riusciva a dormire: i suoi occhi rimanevano ostinatamente aperti e fissi nell’oscura vacuità, a scrutare l’indistinto ventre della notte. Non era il caldo a turbare il suo sonno. Sì, l’aria era immobile e forte nel suo abbraccio, ma vi era abituata, era nata in Etiopia, quella era la sua terra, dolce ed amara allo stesso tempo.
Non era neppure il male che le attanagliava le membra a tormentarla: anche se non le dava tregua, era soltanto uno sfondo lontano, che esisteva, ma non era altro che un paesaggio remoto che svaniva tra pennellate di bianche nubi all’orizzonte. In primo piano, svettava invece un vago senso di muta inquietudine. Era la prigionia della sua anima a dolerle, le ali ferite e spezzate della sua immaginazione a sanguinarle.
«Ogni giorno, non vi era possibilità di alcuna eccezione – pensava – e per quanto tempo ancora? Molto probabilmente per sempre».
Tra poche ore sarebbe spuntato il sole e lei avrebbe dovuto affrontare l’arida pianura. L’astro diurno sarebbe sorto sul volto spento di una giornata che si aggiungeva ripetitiva ad una serie di giornate scandite dal ritmo amaro dei passi infiniti sulla polvere.
Sentiva il respiro tranquillo del padre e del fratello che dormivano profondamente. Si alzò e senza far rumore raggiunse l’unica porta della modesta capanna che era la loro umile dimora. La spinse con delicatezza ed essa si aprì verso l’esterno cigolando sommessamente e svelando il volto della notte buia.
In alto, in un angolo di quello spicchio di cielo d’Etiopia sedeva una schiva falce di luna, lontana e noncurante. Da lassù la Signora della notte poteva contemplare il mondo intero, le montagne, le valli, i deserti, le città, i fiumi, gli oceani e gli anfratti più remoti e nascosti. Adina era della triste opinione che anche se la luna avesse avuto occhi per vedere il mondo, il suo sguardo non si sarebbe mai soffermato su quell’angolo d’Etiopia. La curiosità del satellite terrestre sarebbe di sicuro stata stuzzicata da luoghi più significativi e da uomini e donne più importanti di lei, che facevano la storia e incidevano la memoria, nel bene o nel male che fosse.
Del resto, anche suo padre e suo fratello parevano indifferenti ai suoi pensieri e ai suoi timori. Non c’erano parole di affetto o comprensione a colorare la tavolozza sbiadita della sua vita, non c’erano tinte che non fossero il bianco e il nero nelle loro conversazioni: il silenzio e lo stretto indispensabile.
L’impossibilità di esprimere le sue ansie e i suoi timori la faceva sentire profondamente sola ed abbandonata, presa in ostaggio da una vita che non aveva scelto e che l’aveva strappata con violenza dai suoi sogni e dalle sue aspirazioni.
Si sentiva come una tazza vuota buttata nella sabbia del deserto e sospinta senza meta dal vento tra le dune. Questa era la sua vita. Eppure, qualcosa doveva esserci dentro di lei. Ogni giorno trovava la forza di andare fino a quel lontano cratere e raccogliere l’acqua, trasportandola per miglia nella sua grande tanica legata alla schiena. Quella non era mera forza fisica, ma piuttosto una tenacia che poteva sgorgare solo da dentro, dal più profondo della sua anima. Ma dov’era dunque quel la sua anima? Non riusciva proprio a sentirla. Forse esisteva, ma era come un cristallo intrappolato nella roccia che non poteva splendere ai raggi del sole.
Questi erano i pensieri che affollavano la sua mente. La gran parte del giorno la dedicava all’oro blu. Che vita era quella? Che senso aveva? Vivere faticando, semplicemente per rimanere al mondo, senza aspirazioni, senza vocazioni, senza progetti.
I primi raggi del sole accarezzavano i tetti delle capanne e svelavano le sagome spigolose dei pochi edifici in cemento. Era giunta l’ora.
Nel centro del villaggio si erano già radunate alcune donne e bambine con i loro recipienti: bidoni, secchi, brocche, contenitori di ogni sorta. Adina sbucò da dietro un edificio e svoltando l’angolo si diresse verso di loro con passo deciso. A mano a mano, donne provenienti da ogni direzione si aggiungevano al gruppo come pezzi di un puzzle che lentamente si ricomponeva.
Quando il gruppo fu al completo, donne e bambine si incamminarono in una fila composta e il corteo si mise in marcia, scivolando lentamente lungo il sentiero di ghiaia come un lungo ed elegante serpente multicolore.
Erano solo i primi passi di un cammino molto lungo. Adina assaporava l’aria ancora mite del mattino. Sulle sue spalle, il contenitore vuoto oscillava leggermente. Anche quella mattina avrebbero dovuto percorrere quasi venti chilometri; la siccità imprigionava da mesi nella sua morsa quella parte dimenticata di Africa ed i pozzi più vicini al villaggio erano completamente prosciugati.
La strada si allungava all’infinito verso l’orizzonte. Adina aveva la sensazione di camminare su una lunga striscia bianca separata dal resto del mondo, una sorta di corda sospesa tra Cielo e Terra, fuori dal tempo e dallo spazio, lontana dall’abbagliante frenesia del fiume della vita, dall’impetuosa corrente dell’anima e delle sue emozioni.
Finalmente giunsero sul margine di una grande conca. Da lì si scorgevano tre pozze d’acqua verde-blu di modeste dimensioni. Il gruppo cominciò a scendere con estrema cautela lungo il pendio scosceso fino a raggiungere quei tre occhi bluastri incastonati nel sale bianco e lucente come rare pietre preziose.
Poco tempo per riempire i contenitori, poi il cammino riprese sulla lunga via del ritorno. Ora iniziava la parte più faticosa del viaggio.
E così Adina, con i suoi tredici anni e la corporatura esile si rimise in marcia con il resto del gruppo verso casa, portando sulle spalle il prezioso liquido che gravava sul suo corpo con un peso di circa venti chili.
«Respira, è semplice, devi solo respirare e tutto andrà bene, l’aria ti dà forza» mormorò Adina tra sé. Il sentiero si allungava infinito e sempre uguale verso l’orizzonte. «Un respiro ad ogni passo, ecco che ci sei, il ritmo è giusto, come sempre» continuò ancora tra sé.
Ad un tratto, una ragazza scivolò sulla ghiaia e cadde sotto il peso della grossa tanica che portava legata sulla schiena. Un paio di donne del corteo le si avvicinarono e cercarono di aiutarla ad alzarsi, ma il peso dell’acqua sui loro corpi scarni rendeva l’impresa ardua. Adina riuscì a raggiungere la malcapitata e la afferrò per le spalle. Tirò verso di sé con un gesto deciso, serrando i denti, e la ragazza fu di nuovo in piedi. Si voltò verso Adina, la fissò con i suoi grandi occhi umili e sinceri e disse: «Grazie, grazie davvero… Qual è il tuo nome?».
«Adina».
In quel momento il tempo parve fermarsi nel cuore di Adina e dilatarsi all’infinito. Era così fiera del suo gesto. Eppure era un gesto così semplice, così spontaneo. In fondo era così naturale aiutare un altro essere umano in difficoltà. Il sorriso che dalle labbra si era esteso come una macchia d’olio sul volto di quella ragazza le diceva che quell’azione che le sembrava così semplice e naturale, in realtà non era scontata.
Tutto ciò che era attorno le apparve ora diverso. Lei stessa si sentiva cambiata.
Il giorno dopo, Adina era lì nel centro del villaggio, pronta a partire ai primi raggi del sole, come sempre. I suoi occhi vagavano distratti verso l’orizzonte. Ripensava al giorno prima, a quel momento semplice, ma speciale che aveva vissuto. Forse era stata solo un’illusione, una temporanea boccata di ossigeno. Forse tutto sarebbe stato di nuovo come prima.
Ad un tratto, una voce quasi sussurrata la distolse dalle sue riflessioni. «Ciao Adina ». Davanti ai suoi occhi apparve il volto di quella ragazza che lei aveva aiutato a rialzarsi in piedi, quel volto che le aveva regalato un sorriso.
«Ciao…» rispose Adina tornando alla realtà. «Qual è il tuo nome? Scusami, avrei dovuto chiedertelo già ieri».
«Mi chiamo Jamila.» rispose l’altra con un sorriso ad illuminarle il viso
Anche Adina sorrise. No, non aveva perso la sua anima. Ora ne era certa. Poteva scorgere il suo riflesso nell’immensità del cielo accarezzato dall’aurora.
Finalmente aveva ritrovato sé stessa, quella sé stessa che aveva smarrito quando era stata costretta ad abbandonare la scuola.
Il gruppo si mise in marcia. Adina e Jamila camminavano l’una dietro l’altra. Non parlavano perché il fiato era prezioso, tuttavia quel silenzio valeva più di mille parole.
Adina fissò il suo sguardo sull’orizzonte lontano, lì dove Terra e Cielo si incontravano, il finito si fondeva con l’infinito, la realtà sfumava nell’immaginazione. Guardare l’orizzonte le dava forza e la faceva sentire parte di un disegno più grande, più elevato, dove la sua finitudine di essere umano poteva espandersi in un dialogo silenzioso con le creature e gli elementi del cosmo.
L’universo e i suoi elementi ora non la trascuravano più: il sole lasciava cadere i suoi caldi raggi dorati sulla polvere attorno a lei e le baciava i capelli, la ghiaia sussurrava a tratti misteriosi bisbigli sotto i suoi piedi. E ancora, piccole nubi bianche e leggere come bambagia ricamavano il cielo limpido e quasi trasparente che si estendeva sopra di lei come una gigantesca cupola vitrea ad incapsulare il mondo intero.
Adina aveva ritrovato la sua anima nel sorriso grato di quella ragazza e grazie a quegli occhi riconoscenti, il suo universo interiore era tornato a vivere.

Sara Bortoluz

Foto da Internet

Ed ecco i due racconti migliori del concorso “Tra terra e acqua”

Pari merito per Sara Bortoluz e Roberta Baldantoni. I loro racconti sono stati definiti dalla giuria i migliori, questo senza nulla togliere agli altri inviati, tutti degni di nota.
Due racconti ben scritti che invogliano alla lettura.
Il concorso “Tra terra e acqua” proposto dal nostro blog “La Nuova Briantea” ha raccolto numerosi consensi di partecipazione, e già solo questo è un successo. Un grazie a tutti coloro che hanno raccolto l’invito.
Foto da Internet
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“Compagni di scuola” al terzo posto nel nostro concorso letterario

Libri
Con “Compagni di scuola” di Carlo Molteni si è posizionato al terzo posto tra i racconti che hanno partecipato al concorso letterario “Tra terra e acqua” indetto da La Nuova Briantea. A lui i nostri complimenti.

Compagni di scuola
Sai, è morto il.. domani fanno il funerale. Ci stai a fargli una corona, come coscritti, ti va bene? Ci vediamo in chiesa alle due e mezza, ciao”.
La telefonata giunse così inaspettata che mi lasciò solo il tempo di rispondere a monosillabi. Si va bene, ci sto, ci mancherebbe; ma come è successo? Era ammalato? Ah, brutta storia in così poco tempo se l’è portato via. Chissà i suoi!
Ne è passato di tempo da quando il cortile che si affaccia sulla strada statale ci vedeva giocare durante l’intervallo. Oggi i bambini delle scuole giocano ancora lì, sulla ghiaia che abbiamo calpestato noi, seduti sui muretti dove ci sedavamo noi, guardati a vista da quell’edificio con la pianta a elle che ci ha ospitato durante le elementari.
Non ci sono più i banchi doppi in legno con inserito il bicchiere di vetro per l’inchiostro e il bidello coi baffi dal fare serio che regolarmente passava a riempirli. Non ci sarà più la distribuzione di quaderni, matite, gomme, pennini e cannucce per i più poveri fatta dal Patronato Scolastico. La maestra dai capelli rossi in prima elementare ed il maestro “terrone” che ci portò tanto amorevolmente dalla seconda alla quinta. Non ci sono più i giovedì a casa ma solo al pomeriggio così ci perdevamo il mercato e non ci sarà più il primo giorno di scuola con la blusa nera bella in ordine e la Messa in chiesa. La novità della prima vaccinazione Sabin, tutti in fila a digiuno per inghiottire una zolletta di zucchero intrisa di un liquido rosso che dicevano fosse fegato di scimmia, per poi andare in classe e godersi il panino con la marmellata portato da casa. Le ampie scale in sasso testimoni del nostro salire stancamente la mattina e scendere precipitosamente al suono della campanella alla fine delle lezioni, quelle ci sono ancora.
Ci sarà ancora qualcosa rimasto da allora ne sono certo. I muri pervasi delle nostre urla, del nostro rincorrerci per i corridoi durante l’intervallo, dei nostri discorsi con i compagni di classe, delle nostre preoccupazioni e dei nostri progetti. Tutto lì, sotto i molteplici strati di vernice a fissare per sempre la vita che vi scorse.
Vi ho rivisto ieri, in piazza. Mi sembravate più invecchiati di me. Vi ho perso di vista dopo le elementari, un percorso di studi diverso, ma vi ho sempre seguito e inseguito cari amici compagni in quella bellissima avventura della scuola elementare. Tu, ricordo che eri tra i più bravi. Scrivevi benissimo senza macchiare il foglio di inchiostro, cosa che capitava a tanti di noi. Tu, invece hai bevuto un bicchiere di inchiostro davanti al maestro perché ti aveva sgridato. E tu, che venivi a scuola con le scarpe di pezza e ti facevi più di mezz’ora a piedi col freddo e col ghiaccio sulle mulattiere; ma c’eri, sempre presente, ed eri il mio compagno di banco. Ora ti vedo un po’ provato dalle vicissitudini della vita ma positivo come sempre. E tu, furbetto coi capelli rossi che durante la cena dei coscritti ci correggi la pronuncia dei Lewis. Hai girato il mondo, sei stato in America ed ora sei qui, con noi, a ricordarci che alla fine la tenacia e la voglia di fare vincono sempre su ogni avversità della vita. Sei l’orgoglio della tua mamma. E, sì. La tua mamma e la mia lavoravano assieme ed erano grandi amiche. Me ne parlava con tanto rispetto. Allora essere una ragazza madre era qualcosa di inammissibile. Eppure, la forza e la volontà di una persona che si era ritrovata sola col suo bambino scatenava nelle altre donne un senso di profondo rispetto e di ammirazione. Ed è così che mia mamma parlava della tua. Come un esempio da seguire che va al di là del perbenismo e della falsa moralità degli anni cinquanta ma che insegna l’amore per quello che è. Dedizione totale e sacrificio.
Ehilà, ma sei proprio tu? E’ dai tempi del catechismo che non ti vedo. Sei sempre lo stesso. Sguardo buono e il dialogare lento e misurato, le mani grandi che stringono le mie con un brivido che corre su una pista infinita di ricordi e sensazioni.
Ciao, eccoci qui. Ti ricordi quando mi dicesti che a vent’anni sarei stato pelato? Bene i miei capelli, pochi, ma ci sono tutti ed i tuoi dove sono finiti? Persi nelle corse con l’ape che si ribaltava nel fare i tornanti per Ombriaco?
Ecco il Governador! Ormai sei entrato nella parte ed il tuo look ne è la prova vivente. Bravo. Si vede che la voglia di essere protagonista, anche solo per una notte, ti appassiona. La Pesa Vegia è per noi bellanesi il richiamo della foresta che ci fa riunire tutti, per quella notte. Come da bambini quando la rincorsa ai Re Magi per raccogliere le caramelle ci sfiancava. Contenti però del nostro dolce bottino.
Ehi. Ti ricordi quella volta che volevi farci spostare la statua del Tommaso Grossi? Proposta folle e dettata dal buon vino. Ma la cosa più bella era che, alle due di una notte d’inverno ci trovavamo in quattro a dissertare se era meglio che il Grossi guardasse verso Verginate o verso Coltogno. Rivivendo così le battaglie tra frazioni e il paese, vecchie ruggini sopite da sempre ma riaffioranti ogniqualvolta si voleva inventare qualcosa per divertirsi.
Eh sì, cari compagni di scuola. Fa male dopo una rimpatriata giungere a quel momento che i ricordi ti portano a qualcuno che non c’è più. Le risate e i “ti ricordi..” si bloccano quasi per istinto. Pensando che noi siamo ancora lì a ridere di noi con quell’amarezza e quella dolcezza che ci fa scoprire che loro, sì proprio loro, sono lì ancora con noi e ce li porteremo dentro sempre. Ciao ragazzi, alla prossima.
Carlo Molteni

Foto da internet

“Lario, Principe ereditario!” segnalato nel nostro concorso “Tra terra e acqua”

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Iniziamo la pubblicazione dei racconti che si sono distinti nel nostro concorso “Tra terra e acqua”, che ha ottenuto un ottimo seguito.

“Lario, Principe ereditario!” di Antonella Bolis, ha avuto la segnalazione della giuria, in quanto ben scritto, inoltre ha colto nel pieno il tema dell’iniziativa. Facciamo i complimenti all’autrice.

C’era una volta un Principe Azzurro di nome Lario.
I suoi genitori, re Como e regina Lecco, lo avevano cresciuto con tanto amore.
Un giorno egli avrebbe ereditato vasti possedimenti di terreni coltivati a cereali e frutta, prati dove il bestiame pascolava alla ricerca dell’erba più tenera, vallate in cui i cavalli scorrazzavano liberi, inoltre, zone montane vestite da fitti boschi e castelli che austeri dominavano lo scenario tra rocciosi pendii.
Quando compì la maggior età, i genitori commossi consegnarono nelle mani del giovane un fagottino di pelle contenente un preziosissimo anello di fidanzamento tramandato da generazione in generazione. A corte diedero una gran festa in suo onore invitando aristocratiche fanciulle delle più nobili famiglie, tutte se lo contendevano per un ballo e con battiti di ciglia su occhi dolci, si prostravano in inchini che gonfiavano le molteplici gonne di seta colorata.
Le possibili promesse spose apparivano molto graziose, per lo più tutte tranne una davvero bruttina non più giovanissima che nonostante il titolo nobiliare non era ancora riuscita a prender marito! Il vecchio padre di costei era morto, la madre stava dilapidando le ricchezze in carissimi filtri magici preparati durante le lezioni di stregoneria e, siccome non funzionavano mai, andava anche a ripetizione dalla più costosa delle fattucchiere che, consultata la sfera magica, la rincuorava predicendole un futuro da perfetta strega.
Quella sera vedendo che il Principe non invitò la sua figliola nemmeno per un ballo, arcigna e indispettita per l’ennesimo fiasco, diede sfogo alla collera e si vendicò mettendo in atto le sue incerte magie. Quando il ricevimento stava per concludersi, informò che si sarebbero accomiatate. Furtivamente si versò sul dorso della mano alcune gocce di un intruglio ancora in fase sperimentale, poi si diresse verso il giovane Lario che in un’elegante riverenza si prodigò in un baciamano.
Non appena le labbra assorbirono la pozione, il povero Principe cominciò a trasformarsi in acqua acqua e acqua, gli ospiti e le belle damigelle vennero spazzati via dalla furia del subisso che allagò tutte le terre circostanti.
Il mattino seguente, l’alluvione si era calmata ed era nato un nuovo lago, ben appunto il Lario, e dello sprovveduto Principe non rimase che il suo nome, la sua bellezza e il colore dei suoi occhi. Gli sventurati genitori furono trasformati in villaggi e l’anello che il principe doveva offrire alla dama di cui si sarebbe innamorato, si tramutò nell’ isola Comacina.
Della strega e della figlia non si seppe più nulla.
Il Lario era incastonato nelle Prealpi, sulle rive ghiaiose si affaccendavano pescatori che sbarcavano il lunario prendendo alborelle, pesci persici e agoni che poi venivano essiccati al sole. Intorno a lui il paesaggio acquistò un’originalità fantastica e col passare dei secoli divenne una meta turistica sempre più ambita da diverse popolazioni: mise ogni sua bellezza a disposizione dell’uomo che, oltre a chiese case e industrie, costruì magnifiche ville le cui fondamenta parevano immerse proprio nelle azzurre acque. Essendo molto ospitale, offrì splendidi soggiorni a personaggi famosi in tutto il mondo come Alessandro Manzoni, Stendhal, Leonardo Da Vinci, i poeti Foscolo e Fogazzaro, i musicisti Verdi, Rossini, Listz e Bellini; Napoleone, il primo ministro inglese Winston Churchill e il presidente Kennedy.
Lario brillava al sole e si rabbuiava in prossimità di un temporale, ma quando gli amici Breva e Tivano gli facevano i grattini, increspava le onde muovendosi tutto e gli amanti della vela lo adoravano. Anche lui era sportivo e aveva partecipato alle “Olimpiadi Laghi Italiani” piazzandosi 1° nel perimetro e 3° come grandezza.
Talvolta, quando si sentiva solo, guardava verso i piccoli paesi montani e fantasticava di poter tornare ad essere un ragazzo, sognava il suo castello e pensava ai suoi sudditi che ora non c’erano più; quando invece la malinconia gli pungeva il cuore, allora straripava e si spingeva fino in piazza Duomo a Como o sul lungolago di Lecco per abbracciare i genitori che da borgate erano cresciuti diventando moderne cittadine. Lario si era sempre adoperato per tutti regalando appunto bellezza, disponibilità, ospitalità e generosità ma a poco a poco le genti dimenticarono tutto questo incominciando a non rispettarlo più, qualsiasi cosa non servisse veniva gettata sulle rive e nelle acque di cristallo.
Un bel giorno l’amico fiume Adda, suo immissario ed emissario, gli disse con voce molto triste che le folaghe, gli svassi, le anatre e i cigni avevano progettato di andarsene dai loro nidi perché tra i canneti galleggiavano polistirolo, bottiglie di plastica e quant’altro. Il vecchio corso aveva cercato di dissuaderli rispondendo che nemmeno lui respirava bene ma non per questo aveva intenzione di andare altrove! Lario condivise appieno le lamentele dell’amico informandolo che nei fondali e sulle sue rive c’era molto di più…
Oramai l’uomo sottoponeva l’acqua e la terra ai suoi voleri senza considerarli come beni preziosi. Nella bella stagione gli umani passavano ore deliziose sulle spiagge tra tuffi, bagni di sole e sonnellini ristoratori all’ombra di qualche salice. A fine giornata però nessuno si prendeva la briga di portare a casa i propri rifiuti e smistarli nei vari sacchi della raccolta differenziata. Lario se ne stava silenzioso, senza difese ingoiava tutto quanto nella speranza che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato.
Un bel giorno Priscilla e il nonno si trovarono a passeggiare sotto l’intreccio formato da rami dei platani che costeggiano il lungolago. Attratti dai richiami quasi prepotenti dei bellissimi cigni, scesero i gradoni e notarono con desolazione che le piccole creste d’acqua, schiumavano a riva dondolando avanti e indietro, barattoli di detersivi e sulle sponde fiorivano rifiuti d’ogni genere. Poco distante una folaga si lisciava le piume del petto e appollaiata nel suo nido tra le canne, li osservava insospettita. La bambina e il nonno si guardarono attorno imbarazzati e pieni di vergogna perché il genere umano aveva danneggiato e imbruttito un ambiente da fiaba.
Lario era un Principe Azzurro e tale doveva rimanere, così, nonno e bambina accompagnati da alcuni amici, tornarono muniti di guanti e sacchetti. Il passaparola arrivò a tutta la popolazione che si impegnò a non buttare lattine, cannucce, pile, vetri taglienti e mozziconi di sigaretta. I bambini divennero sostenitori impareggiabili del mondo ecologico ricordandosi di portare sempre appresso un sacchetto dove riporre l’eventuale immondizia, ad esempio: la gomma da masticare, il fazzolettino di carta, il vasetto dello yogurt o la confezione delle merendine.
Lo slogan che intonarono con grande entusiasmo fu: “Dico basta ai rifiuti tra i miei fiduciosi flutti!” dando voce al Principe dei laghi che visse, con l’inseparabile amico Adda, per sempre felice e contento.

Antonella Bolis