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“Un fiume di ricordi” di Roberta Baldantoni raccoglie consensi al nostro concorso di narrativa

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Ecco il racconto di Roberta Baldantoni dal titolo “Un fiume di ricordi” Quando ho sentito bussare alla porta, sono rimasta stupita. Erano mesi o forse anni che nessuno lo faceva, tanto meno mi sarei immaginata di trovare, una volta aperto, due occhietti neri, curiosi e pungenti.
Quando mi hai salutato con quel “Buongiorno” squillante, ho pure pensato che fossi la solita scocciatrice in cerca dell’ennesima anzianotta da raggirare, ma ancora ci sto bene con la testa e ho sempre il bastone con me, non si sa mai.
In realtà mi hai chiesto solo informazioni su un vecchio mulino della zona, un mulino di quelli ad acqua, come si vedono nelle illustrazioni delle migliori storie per bambini. In un attimo la mia testa è tornata a quella ruota, al suo rumore, allo scorrere del fiume, all’attrito delle macine di pietra ed alla faccia di mio marito mugnaio, sporca di bianco.
Quindi, facendo il punto, tu sei una giovane universitaria intenta a fare una ricerca sui “mestieri perduti” e io sono una sorta di piccola enciclopedia fatta di ricordi; forse, nonostante la mia età, potremmo pure arrivare a delle conclusioni interessanti, visto che ancora non sono proprio decrepita
e la mia testa, come dicevo prima, regge ancora.
Mi sarebbe piaciuto che tu parlassi con mio marito, lui era quello che poteva svelarti i segreti di un mestiere ormai scomparso, ma purtroppo non c’è più. In realtà forse non c’era più da tempo, da tanto, troppo tempo; potrei sostenere di essere rimasta vedova giovanissima e non direi poi nulla di così osceno.
Lo so che non mi capisci, lo vedo dai tuoi occhietti che diventano sempre più piccoli e pungenti, ma il punto è che ogni luogo ha una storia che si intreccia con quella di chi lo abita. La nostra storia è stata meravigliosa e tremenda allo stesso tempo. Non so se hai la pazienza di ascoltarmi, non vorrei fare la parte della vecchia brontolona nostalgica, sai di quelle che ripetono sempre le stesse cose, ma in realtà forse questa è la prima volta che mi sento di raccontare come è andata veramente.
Il mulino che tu cerchi, era proprio qui, in questa casa. Le macine ed il meccanismo erano al piano di sotto, e qua fuori c’era il canale con cui veniva deviata l’acqua del fiume, per far funzionare la ruota. Era immensa, tutta di legno e ha fatto il suo dovere per molti anni, sempre accudita da mio
marito.
Era il primo dopoguerra, ed io ero diventata la moglie del mugnaio ribelle, mio marito infatti era considerato un po’ strambo, perché nonostante le origini nobili, aveva deciso di lasciare tutto ed essere diseredato dalla famiglia, piuttosto che doversi assoggettare a quelle che per lui, erano delle regole assurde. Il padre lo considerava un reietto, la madre non ne parliamo, solo la sorella di tanto in tanto, di nascosto, lo veniva a trovare. Poco male, nessuno di loro era poi così simpatico, te lo posso garantire. Anche io comunque, avevo avuto qualche difficoltà a potermi sposare con lui.
I miei genitori erano contrari e i mie tre fratelli fecero il diavolo a quattro per potermi evitare un dolore, dicevano loro. Forse, col senno di poi, mi sento di dire che avevano ragione, ma è anche vero che forse non si può andare contro al proprio destino, mi ero incapricciata col mugnaio e sua moglie diventai.
Tornando al nostro mulino, posso dirti che qui la zona era molto diversa da come la vedi ora. Non c’era la strada asfaltata no, si poteva arrivare attraversando un ponticello in cui passava a pelo un carro tirato da due buoi. Poi ovviamente c’era chi arrivava coi sacchi caricati sull’asino o addirittura
tirando in due o tre un carrettino. Le famiglie all’epoca non avevano molte risorse, le uniche cose che c’erano in abbondanza erano la miseria e le bocche da sfamare.
Avevamo costruito un piccolo pergolato, per far ristorare la gente che arrivava e che sarebbe ripartita solo una volta finita la macinatura. Mio marito era abile e veloce anche se a volte i suoi modi lasciavano a desiderare.
Passava dalla scontrosità del mattino, all’affabilità e voglia di scherzare del pomeriggio e la gente che arrivava a volte se la prendeva un po’. Fortunatamente il mulino più vicino al nostro era parecchio lontano e nolenti o piacenti, i clienti non ci mancavano.
Ti chiederai se eravamo soli, considerando come erano numerose le famiglie all’epoca. Siamo stati soli e poi è arrivato un figlio, un maschio che ha fatto diventare mio marito luminoso e amorevole, penso che avrebbe dato la sua vita pur di farlo star bene. Erano sempre attaccati, se lo portava dappertutto e dal ponticello sopra il fiume, andavano a fare i tuffi nella gorga sottostante. Io avevo una paura, che se ci penso ancora oggi mi vengono i brividi, ma quei due erano come i cervi che ancora oggi pascolano qui dietro, erano liberi. Abbiamo sempre vissuto in questa sorta di paradiso, coi piedi piantati su una terra meravigliosa, piena di natura e così vicina alla felicità, attraversata da questo fiume, che non è poi così diverso oggi da allora. Sai ho sentito alla televisione che l’acqua è considerata divina, dà la vita dicevano, io non so se sia vero, ma sicuramente so che scorre e che non è mai uguale a se stessa. Scorre e non si può fermare, proprio come il tempo che è passato ed oggi mi vede qui con te, a raccontare qualcosa che non c’è più.
Dicevamo del mulino, scusami ma ogni tanto mi viene da prendere una via traversa nel discorso.
Ecco le macine erano di pietra ed erano scalpellate a mano. Ad ogni fine stagione mio marito le ripassava in modo che l’anno dopo potessero lavorare al meglio. Poi c’era il buratto che serviva a raffinare la farina e tanti altri arnesi che io non ti saprei nemmeno nominare. All’inizio io stavo al mulino, ma dopo la nascita del figliolo mi sono dedicata a lui. Quanto gli volevamo bene!
Parlo al passato sì, perché io adesso sono sola. Mio figlio aveva qualcosa di strano, ha iniziato verso i dieci anni ad avere dei problemi. La prima volta che capitò eravamo io e lui e non sapevo cosa fare. Iniziò a tremare, strabuzzando gli occhi cadde per terra e sembrava soffocare. Ho urlato, ho pianto, ero disperata. Mio marito arrivò di corsa, tutto bianco di farina e cercò di tenerlo fermo per non farlo sbattere o ferire, poi tutto passò.
Mettendo da parte l’orgoglio, il mio povero marito rispolverò tutte le sue vecchie conoscenze ed amicizie, per poter venire a capo di qualcosa, per capire l’origine del male del ragazzo. Un giorno un medico ci spiegò e io che non avevo capito niente, riuscii solo a comprendere che si trattava di qualcosa di male. Mio marito si prese la testa fra le mani alle parole del medico, poi usciti dalla
stanza, ci prese tutti e due per mano e ci riportò a casa. Nei giorni seguenti non faceva altro che raccomandarsi col ragazzino di non allontanarsi e di rimanere sempre nei paraggi dove lo potevamo vedere. Quel poveretto crebbe i successivi quattro anni immerso nei nostri angosciosi pensieri, senza sapere cosa gli stava succedendo. Era epilettico, soffriva di una forma grave, che nessun farmaco era stato in grado di tenere a freno.
Il ragazzo andava a scuola regolarmente, accompagnato a piedi da altri compagni, poi quando tornava, andava ad aiutare il padre al mulino. Era felice quando erano insieme, gli occhi brillavano ad entrambi. D’estate il padre non lo portava più a fare i tuffi dal ponticello, si era inventato che il livello dell’acqua era diminuito e si sarebbero potuti fare male, ma in realtà aveva solo paura. Anzi ti dirò che gli aveva proprio vietato di fare anche solo il bagno con gli amici e lui iniziò a pensare che tutti quei no e quelle imposizioni, fossero ingiusti castighi per qualcosa di male che non aveva fatto. Soffriva e diventava sempre più insofferente.
Un pomeriggio d’estate disse al padre che sarebbe andato da un vicino, in casa di un suo compagno di scuola, per aiutarlo a caricare i sacchi di grano da portare al mulino. Quando capimmo che era
una scusa, era ormai troppo tardi. Era annegato e mio marito lo ritrovò qualche centinaio di metri più a valle, trattenuto da un ramo di acacia. Aveva solo quattordici anni.
In un colpo solo io ho perso la vita, un figlio e mio marito, che reagì nel modo più assurdo che poté.
Iniziò ad essere veramente pazzo, mandava via i clienti imbracciando il fucile, stava giornate intere oziando steso per terra senza mangiare né bere, si buttava nel fiume anche nei mesi successivi, in pieno inverno e urlava e piangeva, io lo sentivo che anche di notte piangeva, senza darsi pace. Un giorno iniziò a prendere a martellate la ruota del mulino, ne spaccò una parte e da quel momento finì di sgretolarsi anche quel poco che era rimasto. Io non potevo fare altro che guardare ed aspettare, non potevo aiutarlo in alcun modo, perché prima dovevo capire come aiutare me stessa.
Scusami tesoro, forse ho esagerato, mi sono fatta prendere la mano dalla mia storia e ho perso di vista il mulino. Forse però avrai altri dieci minuti per ascoltare come è finita, perché non è ancora finita.
Il mulino era perso, il lavoro era finito, eravamo nell’indigenza più totale e un giorno mio marito, avvicinandosi mi abbracciò, e mi strinse forte per le spalle. Baciandomi sulla guancia mi chiese scusa per non esserci più stato, mi voleva ancora bene! Forse potevo sperare di ricominciare, potevamo dimenticare.
Un mese dopo scoprii di essere in cinta. Sarebbe stata una gioia ma poteva essere di nuovo l’inizio di un incubo. Non dissi niente a nessuno ed iniziai a fare i peggior lavori, sforzandomi di faticare più che potevo. Avrai capito cosa ti voglio dire, dove volevo arrivare e capirai anche, che ci sono riuscita.
Qualche settimana dopo, un pomeriggio di gennaio, a piedi nudi tra la neve, stavo lavando i panni al fiume, un dolore lancinante, tanto sangue che tinse l’acqua e poi non ricordo più niente. Mi sono risvegliata in casa, febbricitante, in sottofondo, dall’altra stanza, il brusio delle voci del medico e mio marito. Pensando di fare bene, avevo solo segnato irrimediabilmente le nostre vite. Quindi come vedi, il mulino di per sé, sarebbe stato qualcosa di inanimato e non avrebbe una gran storia se non fosse stato per le azioni di questa povera vecchia e di tutti gli altri, naturalmente.
Tutti siamo stati felici ed abbiamo sofferto in questa terra, vicino a questo fiume che ci ha insegnato che nulla è per sempre, che tutto se ne va e si trasforma, sia i momenti belli che quelli brutti.
La storia del vecchio mulino è tutta qui.

Roberta Baldantoni

Foto da Internet

Ed ecco i due racconti migliori del concorso “Tra terra e acqua”

Pari merito per Sara Bortoluz e Roberta Baldantoni. I loro racconti sono stati definiti dalla giuria i migliori, questo senza nulla togliere agli altri inviati, tutti degni di nota.
Due racconti ben scritti che invogliano alla lettura.
Il concorso “Tra terra e acqua” proposto dal nostro blog “La Nuova Briantea” ha raccolto numerosi consensi di partecipazione, e già solo questo è un successo. Un grazie a tutti coloro che hanno raccolto l’invito.
Foto da Internet
libro

Ascensori: il racconto di Emanuele Tavola da leggere tutto d’un fiato

Manu e Laika
Ascensori
“Buongiorno a tutti voi! Siete in diretta con la MD television, televisione MIO DIO per i pochi
che ancora non ci conoscono. Trasmettiamo dal felice borgo di Quatercá Incrus, borgo che forse
felice lo era…”
Il biondo occhialuto, capelli a tempesta, inviato speciale di lunga data, fece andare le mani a
taglio davanti alla telecamera, come a dire che erano cazzi amari “… ora non più! Seguitemi!
Qualcosa di misterioso e diabolico sta avvenendo in questo paese!”
La telecamera lo seguì, allargando la visuale, inquadrando palazzine anonime irrise dal sole e
dal destino.
Un capannello di persone, perlopiù anziane, stazionavano nei pressi di una di queste.
Un uomo coi baffoni alla Stalin e l’occhio triste, di scuro vestito, si fece incontro lemme lemme
all’inviato della tv.
“Buongiorno signor sindaco! Esatto? È lei?”
“Bah…sì” rispose cheto l’altro, testa infossata fra le spalle “Mariagiacomo Mangiadiacono…”
“Oh, che nome altisonante… quale onore…”fece un plateale inchino l’inviato della tv “Ci
racconta brevemente signor sindaco cosa sta accadendo nella qui presente ridente comunità? ”
Il sindaco annuì, facendo ondeggiare i baffoni. “Bah, certo…” cominciò, lasciandosi attorniare
dai suoi concittadini, che buttavano l’occhio verso il monitor per capire se fossero inquadrati o
meno “Da qualche giorno, per cause ancora tutte da stabilire, gli ascensori vanno solo in
discesa, e non risalgono più…”
“Ma come, come? “lo incalzò il giornalista “Non ci posso credere! Si spieghi, non ci lasci in
ansia!”
“Bah, è così…” allargò le braccia il sindaco “Partono dai piani alti e vengono giù, e va tutto
bene…”
“Bene. E allora?”
“Bah, quando toccano terra, non c’è modo di farli ripartire verso l’alto…”
“Incredibile…” enfatizzò all’estremo quella parola l’inviato “Davvero incredibile! Tutti gli
ascensori di Quatercá Incrus fanno così? ”
“Bah, sì, che io sappia… ”
“Avete sicuramente allertato i tecnici, i maghi delle cabine a fune, gli specialisti
ascensionisti…”
“Bah, sì, ci han guardato, han rovistato, oliato e registrato, ma chissà…”
Si fece largo un omone tra la folla, in tuta blu: “Se posso, gentil signori…” levò un dito “Mi
sento chiamato in causa…”
L’inviato della tv si girò verso di lui. “Ma benvenuto! Certo, signor…?”
“Ulderico Labrugola, tecnico ascensori e montacarichi”
“Bene, signor Labrugola! Cosa sta succedendo in questa amena località? Ci dà lumi?”
L’omone ci pensò un momento, poi sbuffò. “In quarant’anni di onorata attività, mai vista una
cosa del genere…”
“Si spieghi, si spieghi! I telespettatori non stanno più nei pantaloni per il pathos!”
Il tecnico si sporse verso il microfono, cercando al contempo di tener dentro la pancia,
respirando piano. Levò un sopracciglio: “Abbiamo controllato tutto, persino le viti e le cicche
incollate sul pavimento della cabina. Un gioiello della perfezione, non una virgola da eccepire.
Tiriamo su l’ascensore fino al settimo piano, e va su liscia come l’olio, quindi carichiamo la
gente del palazzo, felice. Scendiamo che è un piacere, tutti ad applaudire, pacche sulle spalle.
Poi, riproviamo ad andar su, e qui casca l’asino…”
“Non va?”
“Non va, e per la barba di Garibaldi se abbiamo capito il perché…”
“E la gente?” lo stuzzicò l’altro.
“S’incazzano di brutto, e hanno anche ragione…” spiegò affranto il tecnico, collo allungato
verso il microfono “Per evitare risse e degenerazioni verbali, li abbiamo riportati tutti su a
spalla…”
“Quindi?”
“Quindi, altri controlli, smonta di qui, rimonta di là, e tutto pare a posto…”
“Ancora su al settimo a mano?”
“Esatto. E tutto per nulla, tanto la cabina poi non è più risalita…”
“Ma pensa un po’ che storia … ” fece sua la telecamera l’inviato, sorridendo in primo piano “E ci
scommetto che pure tutti gli altri ascensori fanno cosi. Qua il mistero si fa fitto…” socchiuse gli
occhi e accartocciò la bocca “Ma sentiamo un altro parere…” si voltò, facendo ampi cenni a
qualcuno di farsi avanti “Prego, Don Palmiro…”
Un omettino vestito di nero, con due occhi altrettanto neri e un po’ spiritati, uscì dalla folla e si
fece appresso al microfono.
“Buon giorno a tutti…” levò una mano e fece il segno della croce in direzione dei concittadini
“Iddio scenda nei vostri cuori”
“Grazie, don Palmiro. Le siamo grati. Cosa ne pensa di questa faccenda degli ascensori? C’è lo
zampino di quello col forcone?”
Il parroco fece un sorriso di circostanza. “Non è escluso, mi creda, ma sono anche convinto che
questa discesa verso il basso non sia altro che una metafora della morale attuale…”
“Udite udite…” fece il biondo della tv “Si sta preparando una nuova apocalisse? Un diluvio
universale? Pioggia acida o di cavallette?”
Il prete sorrise di nuovo. “Nulla è escluso, di questi tempi…”
“Quali tempi?”
“Tempi di degrado, di amoralità, di Dio denaro e null’altro. Ecco il motivo di questa eterna
discesa, e mai risalita. Così van le cose. L’ascensore scende perfettamente, ma non risale più,
riproducendo esattamente il degrado dei tempi…”
“Ma scusi…” lo interruppe il biondo della tv “Allora, secondo lei, cosa dovremmo fare… anzi,
cosa dovreste fare qua a Quatercá Incrus per risolvere il problema? ”
“Semplice. Digiuno, astinenza, separazione dai beni di questo mondo, preghiera. Ecco, i quattro
fari che ci porteranno fuori dell’oscurità e che ci faranno risalire verso l’alto, verso la luce, verso
Iddio onnipotente che tutto può e tutto fa”
“La ricetta è semplice, ma funzionerà? ”
“Certamente. Basta aver fede…”
“Ah, già…”
“Sicuro che non è facile, tutti avvinti nel proprio egoismo, come una vite filettata senza inizio
né fine ” proseguì “Ma perdio, diamo una svolta alla nostra vita! ” levò la voce e si girò verso i
suoi concittadini “Possibile che siate così ciechi e sordi alle parole del Santissimo? Cosa
bisogna fare per fare breccia nei vostri cuori di pietra, eh? Piantarvi a martellate il Sacro
Chiodo?” alzò ancor più la voce, con gli occhi pronti ad esplodere verso il mondo. Strizzò il
microfono “Pentitevi dei vostri peccati, umani! I vostri corpi saranno ridotti in cenere, e la
cenere usata per concimare i verdi pascoli del paradiso!”
“Ma… ! Don Palmiro…” tentò di placarlo l’intervistatore, sorpreso.
“In ginocchio davanti a me! Subito! ” strillò il parroco, indicando col dito “Avanti! Baciatemi i
piedi, figli del peccato! Strisciate per terra e inzozzate il corpo, visto che è già zozza la vostra
anima! Fornicatori !”
“Si calmi, Don Palmiro! ” reagì l’inviato della tv, resosi conto che la situazione gli stava
sfuggendo di mano. Tolse il microfono al prete, ma questi, con zampata ghermitoria, se ne
riappropriò.
“A terra! Strisciate, luridi figli del demonio! Lavatemi i piedi con la vostra lingua gonfia di
menzogne! Muovetevi!” seguitò ad urlare, avanzando verso i suoi parrocchiani che presero ad
indietreggiare “Salite sull’ascensore e precipitate una buona volta verso l’inferno! Arrostite i
vostri corpi dannati!”
Accorse un terzetto della benemerita, facendosi largo tra la folla ormai impanicata. Due di
questi afferrarono il prete per le braccia e lo trascinarono via, intanto che si levavano alte le sue
farneticazioni.
Il terzo, un maresciallo, venne subito requisito dal biondo della tv.
“Venga qui, gentilmente…” lo attirò a sé, sotto l’occhio della telecamera, e gli piazzò il
microfono all’altezza del triplo mento “Lei è … ?”
“Maresciallo Esimio, agli ordini” fece il saluto militare e batté i tacchi.
“Cosa ne pensa di questa anomalia degli ascensori?”
Il maresciallo si passò una mano sul pancione, dove i bottoni della divisa si aggrappavano
esausti ai loro ancoraggi. “Ecco, è difficile stabilire una causa precisa…”
“Ci potrebbe essere l’Isis dietro tutto ciò?”
“Potrebbe. Ormai il terrorismo le sta tentando tutte pur di salire alla ribalta…”
“Certo. Ma non sarebbe un po’ troppo strana una cosa del genere? In fondo, di morti non ce ne
sono stati…” lo corresse il biondo inviato.
“Per il momento, ma non lo escluderei…” si carezzò il mento “Chi ci garantisce che
all’improvviso gli ascensori non precipitino? Che si schiantino al suolo trascinando con sé tutte
le povere vittime qui presenti?” indicò i paesani con un gesto circolare della mano.
“Ma scusi, non è che così dicendo si possa spargere il panico?”
“Assolutamente no. La gente dev’essere consapevole dei rischi che corre. Coi terroristi non si
scherza. Ti prendono e ti sgozzano solo perché hai sputato per terra. Fan cosi…”
“D’accordo, ma…”
“E allora? Dovremmo chiudere gli occhi?” andò avanti l’altro “Poggiare la testa sul ceppo
aspettando la mannaia del boia di turno? Certo che no. Guardiamo negli occhi il nemico.
Sfidiamolo”
“Si, va bene…” riprese la parola a fatica l’intervistatore “Ma gli ascensori che…”
“Machissenefrega. Usiamo le scale, che diamine, che siamo tutti obesi!” si carezzò il ventre a
due mani “Torniamo alle sane abitudini, basta mollezze e comodità! Vita da caserma per tutti!”
Il biondo della tv riuscì a strappargli il microfono di mano. “Grazie per la sua esaustiva
spiegazione, maresciallo…” e gli diede le spalle “Ora vorrei che si facesse avanti Bruno Roccia,
geologo di chiara fama…”
Era un tizio magro e lungo, senza capelli ma con barbetta a punta. Un occhio pesto lasciava
intendere che faceva un lavoro pericoloso o che non si tirasse indietro nelle risse.
“Salve…” levò una mano. Aveva una voce un po’ stridula.
“Buongiorno a lei!” lo salutò l’altro uomo al centro dell’attenzione “Cosa ci dice di questa
calamità che ha colpito Quatercá Incrus? ”
“Semplice. Questo territorio è tutto vuoto sotto, scavato da una nutrita serie di falde acquifere.
Gli ascensori fanno le bizze in quanto tutto sta cedendo. Tempo qualche giorno e il paese non
esisterà più”
“Ma… cosa sta dicendo? È sicuro?”
“Certo. Stiamo in piedi per miracolo” iniziò a saltellare sotto lo sguardo allibito di tutti gli altri
“Dovessi precipitare, non mi stupirei affatto…”
“La smetta per favore!” gli intimò gelido il biondo della tv, tergendosi il sudore dalla fronte,
non abituato a rischiar la pelle “Se è come dice dovremmo…”
Non terminò.
Un rumore si levò da ogni dove, prima in modo ovattato, poi sempre più manifesto.
I presenti sbarrarono gli occhi, fissandosi stupiti l’un l’altro. Persino il geologo smise di
saltellare, temendo di averla combinata grossa.
Invece, molto semplicemente, gli ascensori si erano rimessi in moto, tutti assieme, tutti verso
l’alto. Era usanza locale averli a vista, a svolgere il loro lavoro fra pareti di vetro, quindi erano
sotto gli occhi di tutti.
Meravigliati, gli abitanti di Quatercá Incrus presero ad indicare qua e là, lasciandosi sfuggire
degli “Ooooo…” stupefatti.
“Incredibile! ” recuperò la parola l’inviato di Mio Dio television “Sono ripartiti! Tutti assieme!
Tutti verso l’alto! Miracolo!!”
Nessuno fiatava più ed assisteva ad occhi sbarrati all’evento straordinario.
La telecamera zoomava di qua e di là, cercando di inquadrarli tutti.
Gli ascensori proseguirono compatti la loro ascesa, tutti assieme appassionatamente.
Andarono su, sempre più su, e non si fermarono neppure quando ebbero raggiunto l’ultimo
piano dei palazzi.
Sfondarono il tetto, senza far neppure troppo rumore, e sempre tutti assieme, come un
convoglio interplanetario, presero la via delle stelle.
Qualcuno fra i popolani di Quatercá Incrus agitò un fazzolettino in segno di saluto, qualcun
altro si asciugò furtivo una lacrima che aveva preso a scivolar giù dalla guancia.

“Quattro stagioni” il racconto di Emanuele Tavola, scrittore emergente

Emanuele Tavola

Quattro stagioni
Autunno
È tempo che le foglie cadano, le acque scendano, il buio cali presto… Tutto va verso il basso, verso la calda terra, come si trattasse di una coperta dove infilarsi in attesa di tempi migliori.
Osservo le tre donne davanti a me: una bruna, una bionda, una rossa. Indiscutibilmente, tutte e tre molto belle, seppur diverse.
La bruna è di carnagione più scura, labbra sensuali e petto prorompente. Di lineamenti non proprio finissimi, emana un magnetismo a cui è difficile resistere.
Indossa un paio di pantaloni neri attillati e un maglione rosso col collo a ciambella. Splendida nella sua semplicità.
Fianco a lei, la bionda. Occhi azzurri, tratti del viso appena accennati in un colorito madreperlato, fisico slanciato e ben tonico. Dimostrazione di freschezza e agilità. Le sue lunghe gambe, in collant neri coprenti, vanno ad infilarsi in una mini scozzese bianco-nera; sopra, un giacchino bianco trapuntato con cappuccio orlato di pelo.
A concludere, la rossa, la mia preferita, diciamolo. Sarà per la spruzzata di lentiggini sul volto graziosissimo; sarà per il nasino all’insù, alla francese; sarà per il corpicino un poco più piccolo delle altre ma ben proporzionato; sarà per la perfezione del suo vestire, nei toni di viola com’è di moda. Sta di fatto che indugio su di lei molto più a lungo delle altre, con indubbio piacere. I suoi capelli ramati, poi, sono quel tocco in più a cui le altre non possono ambire. Bellissima.

Inverno
La neve bianca a contrastare un mondo piombato nell’oscurità. Tutto è buio, spento, rallentato. La vita scorre, ma per forza d’inerzia. Si desidera solo un cantuccio riscaldato dove assopirsi.
La bruna, visto il freddo, s’è messa una tuta intera imbottita. Gialla. Le sue curve saltano comunque fuori. Decisamente sexi, anche perché viene spontaneo chiedersi se sotto indossi qualcosa. La sua espressione è sempre di lasciva disponibilità, ma forse è solo una cosa che mi sono messo in mente io.
La bionda è pure lei ben coperta, col freddo non si scherza. Piumino d’oca e leggins. Elegante e sportiva. I suoi lunghi capelli biondi fanno pandan con la neve.
E la rossa…ah, che meraviglia…
La osservo a lungo, non posso resisterle…
Un cappottino in panno nero sopra ad una dolcevita panna; sotto, bellissime gambe in un collant disegnato a rombi. Manca di pantaloni o gonna, ma forse ha deciso così. Non è volgare per niente, non potrebbe mai esserlo.

Primavera
La luce e il sole cominciano a diventare padroni assoluti. La temperatura si ammorbidisce, i fiori fanno capolino qua e là, gli uccellini cinguettano.
La bruna è in camicetta lavanda sopra a jeans bianchi. Pulita ed efficace. Al solito, attraente.
La bionda ha invece un giacchino corto con disegni orientali, camicia bianca che spunta da sotto e pantaloni neri molto aderenti. I lunghi capelli sono raccolti a coda di cavallo. Molto bella.
La rossa, beh, un portento…
Dolcevita smanicata blu elettrico e minigonna mozzafiato nera. Nere pure le collant, con effetto lamè. Molto, molto bella. La mia preferita, come sempre.

Estate
Caldo, sole, luce, voglia di relax…
La bruna è in costume intero, color prugna. È come una pista da formula uno, tutta una curva.
La bionda è in due pezzi, ma si vede solo la parte sopra; sotto, un pareo fantasia l’avvolge ai fianchi divinamente. Che gambe…
La rossa è la più spinta. Bikini ridottissimo, con perizoma ai minimi termini, color verde fluo. È difficile, molto difficile staccarle gli occhi di dosso. Ma come fa ad essere così bella…?

Cessata attività
Era il mio incubo ricorrente.
Purtroppo, è apparso proprio oggi quel cartello nel negozio di fronte.
La bruna, la bionda e la rossa sono state portate via. Nude, senza pietà, senza dignità.
Dalla mia vetrina le ho viste passare una alla volta, piedi in avanti, sorrette da due tizi nerboruti.
Che tristezza…
Le hanno infilate in un camion per portarle chissà dove…spero non accada anche a me, un giorno o l’altro…
D’altronde, così è la vita per noi manichini…

Emanuele Tavola